un’intera città
di solitudine, un’unghia
di panino d’allentata brama,
mollica per piccioni pieni d’infinita
gratitudine, mobili colli gallinecei
guardinghi tra fontane e mausolei
di banche e cattedrali, sole
che non scalda e non rischiara, tra fronde
prigioniere in un esilio grigio
di marciapiedi sudici, isole lunghe
di cemento industriale, decadenza
Non importa più a nessuno
dove cadrà domani il tempo
morto sui tetti stesi ad asciugare
tra comignoli rumeni e magrebini;
verso il parco fluviale ora s’addensano
perturbazioni alate di zanzare su bottiglie
da stappare usando come leva
l’accendino bic di plastica usurata,
l’unica cosa ancora funzionante
tra giornate fatte apposta per sopire
mareggiate acustiche di nostalgia
per narrazioni zoppe e storie
rarefatte; gabbiani solcano un futuro
di appena qualche ora, dove il fiume
si porta via sciacquando il niente inutile
ch’era rimasto in noi, tra menestrelli
disperati a ogni semaforo e sorrisi
da lutto planetario, sotto il cielo
incupito della crisi. In altri tempi
in cui c’erano dischi nei negozi
e ciliegie nei giardini avrei potuto
incrociare in un cortile anche Bob Dylan
vaticinante e incomprensibile, in epoche
di sofferente ipnosi e di espansione tumultuosa
verso catastrofi incombenti e paradisi,
canti orfici, chilometri di prateria, tutta la polvere
d’America su seggi in finta pelle, Thelma e Louise
già in fuga da chiunque avesse la più vaga idea
di cosa stesse succedendo, quale evento
di sfoltimento umanitario, flagello
di locuste o virus, la rete gsm, le distanze
diventate barzelletta nella banalità d’ali di linea,
motori collaudati, pirati surreali da paesi
remotissimi, esplosivi, incancreniti
da un deserto di risentimento. I bambini allora
erano piccoli, il mondo non era che un teatro
di orfanelli, un circo stanco
di enormità gravose, ormai
dimenticate; ancora c’era
chi moriva, sì,
di morte naturale, nel collasso provvisorio
della pace sociale; c’erano infarti e funerali
lenti di pioggia e preti neri e ombrelli,
l’aria era lucida di lucciole e lampeggi
evocati dai poeti. I ragazzini
si smarrivano in periferia
su biciclette sgangherate tra laghetti
dimenticati al bordo dei cantieri
dove nuotavano girini. C’era un odore antico
di ferrovia e fuliggine, come annotava
Natalia nelle memorie sue
piene di ruggine miracolosa tra domeniche
in collina con Pavese. Il drago
s’era solo appisolato un attimo,
prima di ridestarsi mattiniero
per tornare al suo lavoro: fiabe cristiane
e santi in calendario, un firmamento
di missili sovietici, struggenti solitari
cosmonauti nel segreto di missioni
disastrose, l’avvenire e il governo
del futuro anteriore, il grano dell’Ucraina
e il faccione di Khrushev, la macchina
di fame e morte e dollari, di presidenti
e killer. Patrice Lumumba, spento
dall’uomo nero al soldo
dall’assassino bianco. Senza nome
i feti di Luanda che nascono
malati e se ne vanno
sotto la croce della loro
città afflitta, sotto i poster costosi
che predicano inferno,
mala novella, castità
di cardinali e imperatori
d’ossa, di sabbie e sangue infetto,
Africa che s’imbarca
senza lacrime e si perde
nel mare più domestico
e funesto
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