sabato 7 novembre 2009

Il Verbo appeso, divagazioni pseudognostiche sul crocifisso.


Sebbene spinoziano, non sono mai riuscito a capire perché scegliere l’ateismo dovrebbe rendere più felici che rimanere religiosi. Le argomentazioni degli ateisti, di fronte al caos e al molteplice, alla bellezza dell’esistenza e alle possibilità del “relativismo”, tant’inviso dai cattolici come da alcuni atei1, mi appaiono spesso riduttive, quasi la coda di quelle ideologie novecentesche che da destra e sinistra hanno preteso di migliorare il mondo imponendo un unico credo. È stato così anche per il cristianesimo quando ha scelto la mondanità per introdursi nelle coscienze a scapito della libertà di accogliere Cristo individualmente. Gli atei odierni non ricorrono alla violenza per inculcare la loro ricetta di felicità, e non m’infastidirebbero affatto se si limitassero a rivendicare il loro diritto d’essere atei. In una società laica e relativista, ognuno sia libero d’inventarsi una scusa per sopportare l’incomprensibile. È invece l’ennesima variante dell’ateismo come ricetta definitiva al male di vivere, in previsione dell’uomo nuovo e liberato, a lasciarmi perplesso.

Sulla questione del crocifisso, che la Corte Europea di Strasburgo invita autorevolmente a togliere dai luoghi pubblici, stento a comprendere entrambi i fronti in combutta. Parlo d’entrambi i fronti, anche se in realtà si sono pronunciati in parecchi (compresi atei devoti, politici opportunisti e filosofi confusi ma ostentanti certezze), poiché a spiccare nello sterile dibattito sono stati proprio gli atei e gli esponenti della Curia. Sentendoli ho avuto l’impressione che il maggior escluso dalle loro argomentazioni fosse proprio Dio, colui che ufficialmente vogliono esaltare o negare. Il che non stupisce, se pensiamo che Dio è stato dichiarato morto da Nietzsche più di un secolo fa. Sentire i vescovi costretti a difendere l’Onnipotente con gli argomenti dei loro avversari, i diritti umani e l’offesa alla sensibilità personale, fa impressione. Come il richiamarsi alla cultura nazionale o europea, quasi che il cattolicesimo non sia ritenuto universale di per sé, anche perché imposto mondialmente nei secoli, e con metodi non sempre democratici. Specularmente si sono visti gli atei universalizzare la loro avversione personale verso il “cadavere appeso” richiamandosi (forse più coerentemente) alla laicità dello stato e ad un pluralismo religioso di cui tuttavia non sembrano capire un granché. Mi è tornata in mente una bella discussione tra Pier Vittorio Tondelli e Carlo Coccioli, nella quale l’autore di Davide ad un certo punto sbottava dicendo: “La vera distinzione, la discriminante, è quella che separa gli uomini religiosi da quelli che non lo sono. Fra noi, possiamo pure scomunicarci, sbranarci, dichiarare guerre sante, ma siamo sempre all’interno della religiosità e ci possiamo capire”2. L’attuale dibattito, invece, non esce dai canoni mondani, da una parte come dall’altra. Dio diventa un feticcio tra i feticci della cultura predominante: se togliamo il crocifisso chi si offenderà di più, i cattolici o i nazionalisti, gli europeisti o coloro che vi vedono il simbolo dell’umana sofferenza? Dando naturalmente per scontato che Gesù in croce è da considerarsi il simbolo del cristianesimo tutto, e che semmai ad offendersi (oltre agli atei e i laicisti) debbano essere i mussulmani, gli ebrei, i buddisti e tutti coloro che non considerano il salvatore fondamentale per la salvezza individuale.

È davvero così? Davvero l’immagine di Gesù in croce, già rivendicata come positivamente “scandalosa” da Paolo, è da ritenersi essenza stessa del cristianesimo? In realtà i cattolici dovrebbero parlare per sé, e i vescovi dovrebbero avere l’onestà di non nascondere ai loro fedeli (troppo universalizzati) le contraddittorie origini della loro fede e le diatribe interne che l’hanno caratterizzata fino al rinascimento. Sul crocifisso si è versato sangue a fiumi, e non solo per imporlo agli ignari del verbo cristiano. I Buoni uomini, ad esempio, che nel medioevo erano cristiani a modo loro, rifiutavano l’adorazione della croce perché la ritenevano uno strumento di tortura e un inganno satanico3, e perché erano convinti che per conoscere il “vero Dio” la parola di Cristo fosse più importante del modo in cui è morto. Non fecero una bella fine: furono sterminati dai vescovi in nome di Cristo, e di loro non ci rimane granché. Tuttora i Testimoni di Geova, anch’essi cristiani a modo loro (sebbene si ritengano, un po’ pretestuosamente, gli unici veri cristiani) sostengono non solo che la croce è un simbolo malefico, ma addirittura che Gesù fu torturato su un semplice palo senz’assi trasversali4.

Chi ha ragione: i detentori della Dottrina che difendono la croce con sopra un Cristo morto, convinti che basti farne un’appartenenza culturale dimenticandosi del trascendente, o i settari che ai limiti del fanatismo sono convinti che il Verbo non si possa inchiodare? Carlo Coccioli avrebbe le idee chiare: diatribe tra uomini religiosi, con la differenza però che in questo caso la Chiesa si trova in difesa. Per dirla con Cioran, l’aggressività è un aspetto comune agli uomini e agli déi nuovi5. Non importa se gli aggressori odierni non hanno alcun dio da opporre.

Se gli atei m’infastidiscono, d’altra parte i vescovi non mi entusiasmano. Sono cresciuto negli ideali illuministi, non importa se li metto spesso in discussione: se qualcuno decidesse di togliere i crocifissi dalle scuole cattoliche, credo che sarei il primo a difendere il diritto d’esporlo in quei luoghi. Per il resto, in uno stato laico e pluralista, c’è posto per tutti. Sarebbe forse meglio continuare a garantire alle ormai molteplici comunità italiane, non solo religiose, spazi e luoghi per crescere nella loro cultura e nella cura dell’Anima. Più di altre, le persone religiose dovrebbero ringraziare l’opportunità che il tanto vituperato relativismo offre loro: convivere nel reciproco rispetto all’interno d’alcune semplici regole di cittadinanza. È davvero colpa della nostra epoca, o di chissà chi, se Halloween vince sulle tradizioni cristiane? O semplicemente sono gli uomini religiosi ad essersi dimenticati del Trascendente, appiattendosi su un tradizionalismo di routine, ammiccante alla cultura del consumo e del denaro, che non convince più nessuno? È colpa di Halloween se Cristo è morto e se ne sta appeso in croce nelle scuole, invece di scendere in aula a incantare i ragazzi con parole che lette sul Vangelo riescono ancora a scuoterci singolarmente? Oppure le nostre zucche si sono davvero svuotate al punto che Dio non siamo più neppure più in grado d’immaginarcelo?

Claudio Ughetto



1 Sulla comune avversione degli atei e dei cattolici verso il “relativismo” rimando alla mia recensione del Trattato di ateologia di Michael Onfray, su Diorama Letterario n. 276 – Marzo –Aprile 2006 (anche su www.opìfice .it).

2 Pier Vittorio Tondelli, Un week-end postmoderno, ora Opere, Bompiani 2001.

3 Per Buoni uomini intendo come i Catari chiamavano se stessi. Catari era usato dai loro persecutori in senso spregiativo, continuare a chiamarli così è come chiamare Eskimese un Inuit. Per essi Gesù è morto in croce solo per finta, senza veramente soffrire la Passione, poiché il suo compito è quello di riavvicinare gli uomini al Padre Celeste che nulla ha a che vedere con il creatore di questo mondo. Satana, quindi, sarebbe da intendersi come il demiurgo stesso, creatore della materia che c’imprigiona. Conseguentemente, Satana è associabile al Dio dell’Antico Testamento. Non è un caso che questa dottrina abbia affascinato anche Simone Weil.

4 Nell’appendice di Traduzione del Nuovo mondo delle Sacre Scritture (versione della Bibbia dei Testimoni di Geova), alla voce Palo di tortura leggiamo: “Non c’è nessuna prova che (…) la parola greca “stauròs” significasse una croce come quella che i pagani usavano come simbolo religioso già molti secoli avanti Cristo. Nel greco classico la parola “stauròs” significava semplicemente un palo verticale, come quelli usati per le fondamenta. Il verbo stauròo significava recintare con pali, o fare una palizzata. Naturalmente riporto questa nota a mo’ d’esempio, senz’alcuna pretesa di sostenerne la tesi.

5 E. M. Cioran, Il funesto demiurgo, Adelphi 1986.

sabato 27 giugno 2009

Cosa rimarrà di Jacko?

Non sono mai stato fan di Michael Jackson, né l’ho mai trovato simpatico. Forse perché ha incarnato alla perfezione quegli anni 80 di cui in troppi celebrano i fasti, mentre io continuo a desiderare che finiscano una volta per tutte, per non tornare mai più. Certo, in quegli anni si è prodotta anche dell’ottima musica, ma non v’includerei quella della popstar appena scomparsa. Sono sempre stato tra coloro che a Michael Jackson contrapponevano, stupidamente e arbitrariamente, Prince, in base ad associazioni che oggigiorno lasciano il tempo che trovano: finto negro il primo, visceralmente funky il secondo; trasgressivo il secondo, adolescenziale e infantile il primo; star di plastica il primo, relativamente indipendente il secondo. Paragoni incongrui nel terzo millennio. Ascesa e caduta di due personaggi di grande talento, dei quali ci rimangono gli album realizzati durante la gloria, sebbene a mio avviso la musica prodotta dal genio di Minneapolis preservi tutt’altro spessore.
Ora, bisognerebbe essere miopi e presuntuosi per mettere in dubbio l’enorme talento di Jacko, uno che si è fatto il mazzo come nessun altro e che come produttore di spettacolo eccelleva quasi in tutto. Voce particolarissima, aggressiva, suadente nelle ballad, infantile - quasi da bambino capriccioso, di una sensualità disturbante; inventore e artefice di coreografie di grande originalità, fatte per entrare di botto nell’immaginario adolescenziale; capacità di circondarsi della “gente giusta”: basti pensare al Re Mida Quincy Jones, che ha sempre saputo dare a suoi album un magico equilibrio tra qualità e vendibilità. Ma è proprio qui che secondo me spuntano i limiti di Michael Jackson come songwriter. Finito il legittimo cordoglio per la morte di un artista che ha, nel bene e nel male, segnato un’epoca, ormai giunto all’apice del declino per scandali, debiti e proprie maniacali ossessioni, cosa rimarrà del musicista che ha venduto all’inverosimile? Non sono mai riuscito a comprendere l’idolatria per certe icone, scomparse ai limiti della mezz’età, piene di talento e persino di genio, i cui fasti sono però ricordati per gli atteggiamenti più plateali e kitsch. Quale valore possono avere le performance liricheggianti di Freddie Mercury, tranne far sentire migliori degli spettatori che non capiscono nulla di musica classica e di melodramma, ma conoscono a memoria le arie degli spot pubblicitari? I Queen stessi, che avrebbero potuto fare della musica straordinaria, troppo spesso si sono ridotti a schitarrare inni o a fare a gara con Céline Dion. È un caso che qualcuno li paragonasse, con tutto il rispetto, ai Pooh o agli Abba? In un’epoca in cui si sdoganano gli Abba, è indubbio che i Queen diventano preziosi.
Michael Jackson ha duettato ai limiti del kitsch con le più blasonate popstars americane, ha frequentato attrici hollywoodiane che gli hanno fatto da mamma, è stato l’eminente promotore dei nonluoghi Augeiani, dei MacDonald’s e dei parchi giochi, ha combattuto per l’Amazzonia e per la Pecunia in nome di quella che in America viene chiamata “la ricerca della felicità”. Lui di felicità ne ha avuta poca. Anzi, ha fatto una vita narcisa e solitaria, da eterno adolescente in una gabbia di vetro. Non importa. Trovo il moralismo disgustoso, e penso che Jacko non meritasse gli scandali degli ultimi anni. È probabile che egli, nella sua mente infantile, agisse davvero con la massima ingenuità, senza danneggiare nessuno. Preferisco discutere della musica. Cosa ci rimane di essa? A me sembra poco. Thriller è l’album tuttora più venduto nel mondo, eppure quando lo riascolto, pur trovandolo piacevole, mi sembra già vecchio. È proprio nel suo album migliore che si palesano i limiti di un songwriter che scriveva delle normali popsong che Quincy Jones sapeva rendere innovative. Non dimentichiamo, inoltre, che la titletrack non è neppure sua, ma di Rod Temperton. Torniamo al paragone iniziale, per quanto inadeguato. Sign of the time, di Prince, suona nuovo ora come allora: per l’uso delle percussioni, il bizzarro arrangiamento di alcuni brani, l’amalgama degli stili, la maliziosa giocosità dei testi, l’intenzionalità a non cercare mai la via più facile pur rispettando l’ascoltatore, per sorprenderlo sempre. Posso ascoltare innumerevoli volte Housequake o The ballad of Dorothy Parker e trovarci qualcosa d’inedito ad ogni ascolto. E di Thriller? Sicuramente l’incalzante e geniale basso della titletrack, l’intrusione chitarristica di Ed Van Halen in Beat It (quasi un’eresia per un’epoca dove i generi erano a compartimenti stagni, ma adesso fa meno colpo), il pop-funk di Billie Jean, con l’accattivante gioco di ritmica-tastiere (e il sax che subentra quasi a contrappuntare). Il resto permane nel brodo del funk, del soul e del rhythm and blues, onestamente suonati e laccati. In aggiunta, l’estro di un performer impareggiabile. Non è un caso che la produzione successiva di Jacko si appiattirà man mano su un pop danzereccio tagliato per gli adolescenti, sparato a mille sul palco, tra scenografie e coreografie kitsch mozzafiato. Anche il kitsch può essere un’arte, e il suo rivale Prince non è mai stato da meno. Secondo me, la differenza consiste nel modo in cui esso è trattato. Michael Jackson l’ha degradato a prodotto di consumo più di altri, alimentadolo con i peggiori topos dell’immaginario da esportazione. E anche con pochissima ironia.
Claudio Ughetto

giovedì 25 giugno 2009

l'Altro Ribelle.

Di quelli de l’Altro, il quotidiano di Piero Sansonetti, mi piace il coraggio di pensare contro se stessi. Sono appena nati, del resto, e possono permetterselo. Questo può dare fastidio a quelli de Il Manifesto e Liberazione, che hanno deciso a priori cos’è la sinistra e pensano di poter stabilire quali frequentazioni devono avere le persone di sinistra, ed è quindi disdicevole intervistare l’artista futurista Graziano Cecchini o il sulfureo e inclassificabile Miro Renzaglia. Viceversa, io preferisco le ellissi del pensiero, quelle acrobazie che costringono a stare in equilibrio precario, e proprio per questo a non abbandonare il proprio punto d’appoggio.
Il 24 giugno l’antropologo Massimo Ilardi si è preso un’intera pagina del quotidiano per elogiare il ribelle scritto con la r minuscola, eppure inequivocabilmente affine al Ribelle jungeriano, terza ma non meno importante figura insieme all’ Operaio e all’Anarca. Il titolo dello scritto, Ribelle è bello. La destra lo ha capito, la sinistra no, non l’avrà deciso l’autore, ma ben riassume la sua convinzione finale, secondo cui “bisognerebbe domandarsi perché la sinistra è incapace di creare un suo immaginario. E senza immaginario, lo sanno tutti, non si fa politica vincente”. Mi verrebbe da chiedergli se davvero è convinto che basti riferirsi al Clint Eastwood di Challagan, ai film di Peckinpah e magari a John Milius (insomma a ciò che la sinistra ha recuperato negli anni 90 dopo averlo sputtanato nei 70), oppure ai trentenni maneschi, anticonsumisti (e un tantino masochisti) di Fight Club per avere, o ri-creare, un immaginario. Io non ne sono convinto, soprattutto dopo avere seguito, sebbene in ritardo, l’evoluzione di quello che era detto gramscismo di destra e auspicava nell’utilizzo della cultura, quella popolare compresa, la creazione di un immaginario differente per la costruzione di una nuova politica. Ma è anche vero che Ilardi non vuole questo. Da quello che scrive mi sembra d’intuire che per lui il ribelle è una figura dell’immaginario, colui che “insegue la libertà al presente”, e la libertà “è materiale o non è. Il ribelle non fa rivoluzioni la cui efficacia si potrà misurare in un futuro più o meno lontano, ma rivolte che valgono di per se stesse e sono legate a una causa e una situazione contingente”. Egli ha “un rapporto diretto con la libertà contro il pensiero unico, i luoghi comuni, l’uguaglianza universale e astratta slegata da ogni elemento concreto e appiattita sull’identico, gli apparati di potere le cui fondamenta affondano sulla pretesa di possedere la rappresentanza di una società che esiste più”.
Tipo tosto, il ribelle, e riconosco di trovare per molti aspetti la sua battaglia sacrosanta. A questo punto, sono tentato di pensarmi ribelle anch’io, seduto il giardino a pestare i tasti del mio Mac e godermi l’arietta di mezza montagna in maniche corte. Mi piace questo richiamo alla concretezza e alla situazione contingente usando Clint Eastwood e Braveheart, personaggio recuperato da un attore-regista che grazie all’alcool è sempre stato più di là che di qua, fino a farsi mettere in croce. Riconosco anche che sono passati più di vent’anni da quand’ho letto per la prima volta Il trattato del ribelle jungeriano, lasciandomi trasportare dall’ondata emotiva che per forza travolge qualsiasi adolescente che si rispetti, per quando tardo come me. Citando liberamente Cioran, altro mio autore di quei tempi, a quell’età bisogna essere dei santi o delle amebe per lasciarsi scorrere addosso un libro simile. Ho mantenuto il massimo rispetto per quel libro, eppure il magistero da esso esercitato mi ha stupito non poco. Non ho mai capito che ci facesse nelle tasche dei giovani ai convegni di An, potenziali ribelli decisi a votare Fini e Berlusconi in nome dell’anticomunismo di maniera. Col tempo, forse, ho finito per riconoscermi maggiormente nell’Anarca: detestare quest’epoca, viverci tragicamente, astenermi dalle militanze, starmene sulle mie a coltivare la bellezza (giardino compreso), leggere Cervantes e Proust, frequentare artisti e riempirmi la casa delle loro opere, e intanto aspettare il momento giusto per “passare al bosco”.
Detesto coloro che vogliono impedirmi di divorziare, anche se sto con mia moglie da quasi vent’anni e ci sto bene. Sarei capace d’imparare a fumare solo per fare girare le balle ai salutisti. Qualche canna continuo a farmela, se ce n’è. Ma questo non mi fa sentire particolarmente ribelle. Mi rendo sempre più conto che queste forme di ribellione hanno smesso di appartenere a un’umanità rasente la “devianza, (la) follia e la microcriminalità diffusa” per trasformarsi invece nei vessilli dei conformisti di ieri. Allora dominano il “decadimento dei costumi, (l)’imbarbarimento della società non più governata da alcun valore”. In giro ci sono troppi ribelli che si sentono politicamente scorretti solo per concedersi ogni rozzezza e volgarità, ignorando cos’è lo stile. Ilardi cita Berlin, famoso per aver distinto tra libertà “di” e libertà “da”. Anch’io preferisco la libertà “da”, ma fatico a condividerla con gente che attraverso essa pensa di potersi concedere ogni egoismo ed arbitrio, lasciando che le donne incinte muoiano in mare perché non sono italiane.
Sono stufo d’immaginario, perché sento che me lo stanno imponendo, e non so che farmene di Clint Eastwood con la pistola in mano. Sto cercando disperatamente, e inutilmente (in questo mondo che secondo Kundera è una trappola) di uscirne. Forse per fare davvero l’Anarca, o magari per scoprire che il bosco non è poi così lontano. Basta sapere attendere.

Claudio Ughetto

venerdì 15 maggio 2009

Oggi è un giorno terribile.
Posto questo toccante pezzo del sociologo Carlo Gambescia, che sottoscrivo completamente.

Potete anche trovarlo qui: www.carlogambescia.blogspot.com

L'immigrazione clandestina diventa reato. Vergogna!
Carlo Ganbescia

“REATO DI CLANDESTINITA' - L'immigrazione clandestina diventa reato. L'articolo 21 del ddl introduce nell'ordinamento italiano il reato di "ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato". I clandestini, in base alla nuova disciplina, non rischiano l'arresto, ma si vedranno infliggere un'ammenda dai 5mila ai 10mila euro. La norma renderà obbligatorio denunciare i clandestini all'autorità giudiziaria tranne che per i medici e i presidi per i quali è stata prevista un'apposita deroga”. (…)
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NEI CIE FINO A 180 GIORNI - L'extracomunitario che arriva in Italia senza permesso di soggiorno potrà rimanere nei Cie (Centri di identificazione ed espulsione) fino a 180 giorni. Ora il periodo è di due mesi.(…)
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SI' ALLE 'RONDE' - Associazioni di cittadini potranno segnalare alle forze dell'ordine situazioni di disagio sociale o di pericolo. Saranno iscritte in elenchi e dovranno essere formate prioritariamente da ex agenti “
http://www.ansa.it/opencms/export/site/notizie/rubriche/daassociare/visualizza_new.html_961818060.html

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Oggi per protesta avremmo voluto tacere. Ma non ci siamo riusciti. Ed eccoci qui.
Dobbiamo subito osservare che l’introduzione del reato di immigrazione clandestina è per noi fonte di grande amarezza, perché ci fa sentire inutili. Dopo una vita segnata dalla fatica di studiare i fenomeni sociali per arricchire la qualità della vita di tutti. A partire dalla giusta necessità di migliorare i rapporti fra le persone di cultura diversa. Che tristezza.
Ma entriamo in argomento.
Il ddl prevede non l’arresto ma una multa. Il che però sul piano sociologico ha lo stesso valore. E spieghiamo perché.
L’introduzione del reato di immigrazione clandestina (a prescindere dall’arresto o meno) indica soltanto una cosa. Che ha vinto la falsa necessità di indicare un capro sociale espiatorio: il migrante. Da immolare sull’altare della pubblica sicurezza degli italiani: una vergogna.
Perché si rischia - ecco il punto - di trasformare l’Italia in uno “Stato di polizia”. E sotto questo aspetto l’istituzione delle ronde è sintomatico : le ronde sono utili solo per tenere vivo uno stato di allarme sociale che si autoalimenta grazie alla diffusione della paura sociale. E che non può non risolversi nel progressivo trattamento delle persone - tutte le persone a cominciare dagli immigrati - come puri e semplici ostacoli, al normale “andamento” della vita sociale… E qui si pensi, come esempio di svilimento della persona, al prolungamento fino a 180 giorni della permanenza nei Cie, dove si vive in condizioni sub-umane, dell’extracomunitario senza permesso di soggiorno.
Riteniamo perciò che il Governo Berlusconi stia giocando tutte le sue carte proprio sulla creazione del “Capro Sociale Espiatorio Immigrato Clandestino”. Dipingendo il migrante come nemico interno, per ricompattare collettivamente gli italiani, intorno alla figura “bonapartista" di Berlusconi, "primo comandante" e salvatore del “popolo” dall’ “invasione straniera”.
Creare un “capro sociale espiatorio” e soprattutto tenerlo costantemente vivo, istituzionalizzando una situazione di allarme, introduce un elemento di controllo sociale molto forte. E di semplificazione delle attività di polizia (preventive e repressive). In prospettiva il rischio più grosso per il cittadino è quello di perdere la propria libertà, magari in quanto “non denunciante” o “amico” di " immigrati clandestini pericolosi"...
Il pericolo principale è quello della definitiva istituzionalizzazione di un clima da barbara “guerra civile” nei riguardi dello “straniero”, rappresentato come potenzialmente pericoloso.
Di qui la nostra stanchezza ricordata all’ inizio del post. Nessuno ti ascolta. Compreso lo schieramento di centrosinistra, che in due anni di governo non ha aperto né chiuso ai migranti: ha semplicemente guardato dall’altra parte… E ora grida al fascismo…
Sotto questo aspetto la “destra nuova” di Fini che si vanta di essere libertaria, perché non ha votato contro un ddl che libertario non è? Tuttavia se volesse, potrebbe farlo cadere al Senato...
Infatti che c’è di meno libertario di un ddl che trasforma in reato la libertà di movimento, vero presupposto di ogni altra libertà ?

mercoledì 6 maggio 2009

BALLAD, di Giorgio Cattaneo

un’intera città
di solitudine, un’unghia
di panino d’allentata brama,

mollica per piccioni pieni d’infinita
gratitudine, mobili colli gallinecei
guardinghi tra fontane e mausolei
di banche e cattedrali, sole
che non scalda e non rischiara, tra fronde
prigioniere in un esilio grigio
di marciapiedi sudici, isole lunghe
di cemento industriale, decadenza
Non importa più a nessuno
dove cadrà domani il tempo
morto sui tetti stesi ad asciugare
tra comignoli rumeni e magrebini;
verso il parco fluviale ora s’addensano
perturbazioni alate di zanzare su bottiglie
da stappare usando come leva
l’accendino bic di plastica usurata,
l’unica cosa ancora funzionante
tra giornate fatte apposta per sopire
mareggiate acustiche di nostalgia
per narrazioni zoppe e storie
rarefatte; gabbiani solcano un futuro
di appena qualche ora, dove il fiume
si porta via sciacquando il niente inutile
ch’era rimasto in noi, tra menestrelli
disperati a ogni semaforo e sorrisi
da lutto planetario, sotto il cielo
incupito della crisi. In altri tempi
in cui c’erano dischi nei negozi
e ciliegie nei giardini avrei potuto
incrociare in un cortile anche Bob Dylan
vaticinante e incomprensibile, in epoche
di sofferente ipnosi e di espansione tumultuosa
verso catastrofi incombenti e paradisi,
canti orfici, chilometri di prateria, tutta la polvere
d’America su seggi in finta pelle, Thelma e Louise
già in fuga da chiunque avesse la più vaga idea
di cosa stesse succedendo, quale evento

di sfoltimento umanitario, flagello
di locuste o virus, la rete gsm, le distanze
diventate barzelletta nella banalità d’ali di linea,
motori collaudati, pirati surreali da paesi
remotissimi, esplosivi, incancreniti
da un deserto di risentimento. I bambini allora
erano piccoli, il mondo non era che un teatro
di orfanelli, un circo stanco
di enormità gravose, ormai
dimenticate; ancora c’era

chi moriva, sì,
di morte naturale, nel collasso provvisorio
della pace sociale; c’erano infarti e funerali
lenti di pioggia e preti neri e ombrelli,
l’aria era lucida di lucciole e lampeggi
evocati dai poeti. I ragazzini
si smarrivano in periferia
su biciclette sgangherate tra laghetti
dimenticati al bordo dei cantieri
dove nuotavano girini. C’era un odore antico
di ferrovia e fuliggine, come annotava
Natalia nelle memorie sue
piene di ruggine miracolosa tra domeniche
in collina con Pavese. Il drago
s’era solo appisolato un attimo,
prima di ridestarsi mattiniero
per tornare al suo lavoro: fiabe cristiane
e santi in calendario, un firmamento
di missili sovietici, struggenti solitari
cosmonauti nel segreto di missioni
disastrose, l’avvenire e il governo
del futuro anteriore, il grano dell’Ucraina
e il faccione di Khrushev, la macchina
di fame e morte e dollari, di presidenti
e killer. Patrice Lumumba, spento
dall’uomo nero al soldo
dall’assassino bianco. Senza nome
i feti di Luanda che nascono
malati e se ne vanno
sotto la croce della loro
città afflitta, sotto i poster costosi
che predicano inferno,
mala novella, castità
di cardinali e imperatori
d’ossa, di sabbie e sangue infetto,
Africa che s’imbarca
senza lacrime e si perde
nel mare più domestico
e funesto

lunedì 27 aprile 2009

Non so quant’è paranoide pensarlo, ma se mi pongo intuitivamente ad analizzare quest’epoca sento che le sue problematiche non provengono solo dalla crisi economica (che qualcuno vuole farci credere in via di superamento, per convincerci a perseverare in questo modello di vita), dall’immigrazione o dalle guerre che si sono sparse un po’ in tutto il terzo mondo. Questi sono gli effetti, quelli che c’indurrebbero a credere che la crisi ci riguarda solo in parte e i problemi proverrebbero da un “mondo altro”, peggiore del nostro, che minaccia i valori progressisti o viceversa conservativi della cultura occidentale.
Invece ho a volte l’impressione che noi occidentali siamo già oltre la cultura del consumo, quella che è arrivata dopo la società industriale interpretata dal marxismo, e che ha portato anche la sinistra alternativa ad aderirvi. Permangono dei residui: ancora le masse scendono in piazza, sporadicamente e frammentariamente, a chiedere che i singoli o i nuclei famigliari possano mantenere gli standard raggiunti, ed è probabile che gli animi s’esaspereranno nei prossimi anni. Ma la lettura della realtà, forse, dovrebbe essere diversa: è la stessa cultura progressista, con i suoi strascichi consumistici, a essere diventata obsolescente, per cui le masse si muovono con le spalle al futuro, pensando al passato, con l’isteria di aggiustare il presente secondo un’ottica individualista che assomiglia a una coazione a ripetere, mentre ai leader mondiali (e mi riferisco ai detentori dell’economia: non più di 200 persone, per dirla con De Benoist) quasi conviene far covare questo malcontento, perché esso permette di sorreggere l’insieme dei paradigmi obsolescenti sui quali si basa la loro ricchezza.
Mi viene da pensare che siamo entrati in un’epoca rivoluzionaria, non tanto perché le masse possono risollevarsi per chiedere sempre di più (questo c’è già stato, ora si va al declino), ma perché di ciò che abbiamo, o ci è stato donato con la cultura dei consumi, potremmo anche farne a meno. L’economia è destinata fisiologicamente a decrescere, mantenere i suoi presupposti allo stato attuale è uno sforzo volontaristico che è determinato dal desiderio di rimanere nelle condizioni medesime, palesemente insostenibili e invivibili. Eppure di ciò che è stato generato dai paradigmi che ci hanno abbandonato non sappiamo davvero più che farcene. È stata proprio la tecnica a ucciderli, e nemmeno ce ne accorgiamo. Ormai potremmo esprimerci con la massima facilità, dare un colpo definitivo a tutto l’apparato che gli ex sessantottini hanno creato per darci l’immaginazione al potere, prendendosi il potere per mezzo dell’immaginario. Questi vogliono ancora farci credere che la loro idea di produrre immaginario da farci consumare, per mantenere uno status produttivo alto che garantisca il lavoro per tutti, sia irrinunciabile. Invece è una menzogna, almeno parziale. Se solo ce ne rendessimo conto, tutto il loro sistema basato sull’editoria, sulle case discografiche, sulla pubblicità, sull’immaginario collettivo che ci permea attraverso i media crollerebbe insieme ai residui di ricchezza che ancora si sforzano di conservare.
Insomma, oggigiorno possiamo scriverci i libri e pubblicarli da noi, fare noi la musica e metterla in Rete, immaginare quello che vogliamo e farne immagini, produrre in piccolo abiti e oggetti e pubblicizzarli. Tutto questo usando i mezzi che i detentori del potere ci hanno dato per arricchirsi, ma che adesso non riescono più a gestire . Purtroppo continuiamo a credere che solo producendo e consumando in grande si può sopravvivere. Invece è palese che tale convinzione continua ad esserci inculcata dai padroni di una cultura che ha fatto il suo tempo ma che è ancora utilizzabile per farci perdere tempo, oppure inducendoci a usare male gli strumenti tecnici che potrebbero renderci un po’ più liberi. Preferiamo andare su Facebook e aspettare di morire, invece di produrre una Nuova Cultura; preferiamo sorbirci passivamente l’immondizia televisiva, invece di usare i media per esprimerci. Il Grande Fratello non ha bisogno di controllarci: per il momento riesce ancora a narcotizzarci, inebetendoci con il mondo dei reality, bombardandoci di notizie fino a farci dimenticare di vivere e relazionare nelle nostre piccole realtà. Forse non basterebbe un clic per annullare tutto questo. Per renderci conto dell’epoca che stiamo vivendo, e delle opportunità che paradossalmente ci offre, dobbiamo prima riappropriarci della realtà. Il resto è a portata di dito, come adesso: cambierebbe solo l’oggetto del nostro desiderio.

mercoledì 22 aprile 2009



Fonte: www.opifice.it

Nicolai Lilin
Educazione siberiana

Edizioni: Einaudi, Torino 2009
Pagine: 343

Nicolai Lilin è nato nel 1980 a Bender, in Transnistria, una regione dell’ex URSS proclamatasi indipendente ma tuttora non riconosciuta dalla Comunità Internazionale. Da qualche anno vive in provincia di Cuneo. Del suo esordio letterario, scritto direttamente in Italiano, si è parlato abbondantemente nelle ultime settimane. Merito anche dell’ampia presentazione che Roberto Saviano ha scritto per La Repubblica il giorno dell’uscita nelle librerie e che ha trasformato un libro d’indubbio valore in un bestseller. Le prime 28000 mila copie sono state esaurite in due giorni e l’Einaudi è subito partita con la seconda edizione. Al momento il libro figura al settimo posto tra i dieci titoli più venduti in Italia.[1]
Viene spontaneo chiedersi se Educazione siberiana, caratterizzato dalle asperità linguistiche che impreziosiscono le opere di quegli autori che scelgono la lingua d’adozione per esprimersi, costretti quindi a sorvegliare la prosa riuscendoci solo in parte, per cui le parole sembrano esplodere sulla pagina in modo inedito, avrebbe venduto altrettanto, dando al suo autore la stessa notorietà, se Saviano non ci avesse messo del suo. Probabilmente sì, perché il libro ha un suo indiscutibile valore letterario. Pur non avendo un successo così immediato, si sarebbe imposto gradualmente. È evidente che Einaudi ha deciso di investire fin dal principio su quest’esordio, altrimenti l’autore di Gomorra non avrebbe potuto leggere il libro in anticipo, appassionandosene. Eppure la sua presentazione, sebbene generosa (onesta, direbbe Nicolai) ha rischiato d’essere fuorviante, come ha già rilevato la scrittrice Michela Murgia sul suo blog[2], in una recensione in cui paventa quella che a suo avviso sarebbe la “sventura peggiore” per Nicolai Lilin: “passare per il Saviano siberiano, perché lui le cose non le denuncia, le racconta”. Nicolai, trasmettendoci la “sua” verità, è ben lungi dal vedere solo gli aspetti negativi della “comunità criminale” in cui è cresciuto. Egli è tuttora molto legato alla cultura che il suo popolo, gli Urka, ha tentato di preservare nonostante le deportazioni e le vessazioni perpetrate dal governo centrale sovietico. Per gli Urka, religiosissimi, non era certo un peccato uccidere un poliziotto, ma nelle pagine del libro è subito evidente come i metodi della polizia e dei militari sovietici verso i civili, le donne, i disabili e i malati psichici (dei quali Nicolai ci parla con toccante empatia), erano ben più aberranti. Scrive Nicolai Lilin: “… nella nostra comunità il diritto alla parola ce l’avevano tutti, anche le donne, i minorenni, i disabili e i vecchi”; e aggiunge altrove: “… bisognava rispettare tutti gli esseri viventi, categoria in cui non rientravano i poliziotti, la gente legata al governo, i bancari, gli usurai e tutti coloro che avevano tra le mani il potere del denaro e sfruttavano le persone semplici”. Da una parte c’era un governo totalitario, centralista e giacobino che deportava intere popolazioni servendosi della forza e uccidendo con assoluta indifferenza; dall’altra una comunità di “criminali onesti”, secondo l’ormai celebre definizione di Lilin, piena di rapinatori e anche di assassini, eppure tenuta insieme da valori e regole che hanno formato la personalità del narratore nel rispetto dell’unica giustizia possibile in quei luoghi. Gli Urka detestavano il denaro e rifuggivano sia l’uniformazione comunista che i feticci statunitensi. “Ma come mai vanno tutti in America dicendo che cercano la libertà?” si chiedeva lo zio Kuzja, parlando col piccolo Nicolai. “I nostri antenati si sono rifugiati nel bosco, in Siberia, mica sono andati in America. E poi perché fuggire dal regime sovietico per finire in quello americano? Sarebbe come se un uccello scappato dalla gabbia andasse volontariamente a vivere in un’altra gabbia”. Sembra di sentire il Ribelle jungeriano.
Gli Urka non assomigliavano ai camorristi descritti da Saviano, arricchitisi grazie alla cultura della droga e con la testa imbottita dall’ideologia del consumo. Eppure degli Urka bisogna parlare al passato, perché non esistono più. Nicolai Lilin ce li descrive com’erano, prima che la loro lotta per la libertà fosse definitivamente annientata non dal regime comunista, ma dai soldati della Russia democratica e dal capitalismo selvaggio subentrante al capitalismo di stato. Difficile resistere alla cultura del consumo, e i giovani criminali ne saranno plagiati: le vecchie regole, adatte alla sopravvivenza della comunità, perderanno d’importanza, per lasciare il posto al sopruso e al nichilismo. “Non riuscivo a capire i meccanismi che mandavano avanti il mondo normale, dove le persone alla fine rimanevano divise, senza avere niente in comune, senza provare il piacere di condividere le cose”, scrive Nicolai verso la fine del libro. Ecco la sua descrizione dei russi degli anni ’90: “Macchine belle, preferibilmente straniere, vestiti uguali per essere come tutti gli altri, sabato sera al bar del paese per farsi belli, bere una birra in lattina prodotta in Turchia, raccontare agli altri che tutto è a posto, che gli affari vanno bene, anche se sei solo un umile lavoratore sfruttato e non sei capace di vedere la verità della tua vita”. Da queste considerazioni si capisce benissimo che se Nicolai denuncia qualcosa, quel qualcosa non è certo la cultura “criminale” nella quale è cresciuto.
Proprio perché ci parla del passato attraverso gli occhi di un ex ragazzo che ha vissuto cose terribili e straordinarie, ma che neppure manca di buone letture[3], Educazione siberiana non andrebbe letto esclusivamente per soddisfare la nostra morbosità. A mio avviso, le pagine migliori non sono quelle delle risse e degli accoltellamenti, o delle sparatorie con morti ammazzati di cui è protagonista Nicolai stesso. Che senso ha chiedergli se ha ucciso e come, dopo che lui si è raccontato nel libro e continuerà a raccontarsi nel probabile seguito, quello della guerra in Cecenia? Educazione siberiana non è un film di Tarantino, e nemmeno un romanzo di Corman Mc Carthy. Non deve importarci se le cose siano andate come Nicolai le racconta: con le stesse modalità, in modo così “romanzesco”. Certe scene d’azione, come quelle della seconda parte del lungo episodio Il giorno del mio compleanno, potrebbe raccontarle un regista americano in un film come The Warriors. Invece siamo di fronte all’opera di uno scrittore persino colto, ben consapevole dei suoi strumenti, che ha fatto tesoro della narrazione orale degli anziani, dello zio Kuzja e di altri, per trasformare in letteratura ciò che ha visto e sentito. Letteratura nel senso più alto del termine: è grazie a queste pagine se veniamo a conoscenza di un mondo e di una cultura, se i nomi delle persone che l’hanno costituita ci afferrano per trascinarci piacevolmente fin dentro la pagina. Zio Kuzja e l’anziana sorella, l’imbestialito ma simpatico Mel, zia Katja e il suo rifugio di vecchi criminali, il sanatorio con i pazienti affamati di sigarette e il negozio di Bosja vivono grazie a questo libro e alla straordinaria empatia del narratore. E sono le pagine migliori, quelle che partono come una digressione e vorremmo che non finissero mai. È straordinaria l’empatia con cui Nicolai Lilin riesce a descriverci i suoi amici disabili, malati psichici, che tra gli Urka sono considerati “Voluti da Dio”. Con altrettanta empatia riesce a descriverci il loro spaesamento di fronte alla morte e al dolore, togliendoci il fiato. Come succede a Boris, freddato una notte dai militari: “Teneva il suo cappello da macchinista ancora stretto tra le mani. (…) per morire si era messo come i neonati, le ginocchia al petto stringendosi tutto. (…) Gli occhi erano spalancati e gelidi, conservavano una paura disperata che si trasformava in una specie di domanda: - Perché mi sento così male?”. Qui, davvero, la letteratura arriva dove la psicologia e la psichiatria si fermano.
Mi piace pensare a Educazione siberiana come a un’elegia anomala, poiché è delle elegie raccontare vicende morali e sentimentali senza per questo scadere nel moralismo o nel sentimentalismo. Il soldato Nicolai, nel pieno della guerra cecena, ha bisogno di recuperare ciò che ha perduto e farne tesoro, trattenendo in sé le persone che gli hanno insegnato ad amare la libertà. Meglio delinquente che borghese, diceva Ernst Jünger con una frase ormai desueta, o forse diventata impresentabile perché politicamente scorretta. Meglio “criminale” che corrotto, ci dice invece Nicolai Lilin. A patto d’intendersi sulle parole.

Claudio Ughetto

NOTE

[1] LA STAMPA, Tuttolibri n. 1661, 18 aprile 2009.
[2] michelamurgia.altervista.org/content/view/333/2/
[3] Sarà un caso che tra i nomi degli scrittori letti in gioventù, Nicolai Lilin mette anche quello di Dickens, maestro nel mostrare delle realtà terribili e vitali attraverso occhi di bambini destinati a crescere troppo in fretta?