lunedì 27 aprile 2009

Non so quant’è paranoide pensarlo, ma se mi pongo intuitivamente ad analizzare quest’epoca sento che le sue problematiche non provengono solo dalla crisi economica (che qualcuno vuole farci credere in via di superamento, per convincerci a perseverare in questo modello di vita), dall’immigrazione o dalle guerre che si sono sparse un po’ in tutto il terzo mondo. Questi sono gli effetti, quelli che c’indurrebbero a credere che la crisi ci riguarda solo in parte e i problemi proverrebbero da un “mondo altro”, peggiore del nostro, che minaccia i valori progressisti o viceversa conservativi della cultura occidentale.
Invece ho a volte l’impressione che noi occidentali siamo già oltre la cultura del consumo, quella che è arrivata dopo la società industriale interpretata dal marxismo, e che ha portato anche la sinistra alternativa ad aderirvi. Permangono dei residui: ancora le masse scendono in piazza, sporadicamente e frammentariamente, a chiedere che i singoli o i nuclei famigliari possano mantenere gli standard raggiunti, ed è probabile che gli animi s’esaspereranno nei prossimi anni. Ma la lettura della realtà, forse, dovrebbe essere diversa: è la stessa cultura progressista, con i suoi strascichi consumistici, a essere diventata obsolescente, per cui le masse si muovono con le spalle al futuro, pensando al passato, con l’isteria di aggiustare il presente secondo un’ottica individualista che assomiglia a una coazione a ripetere, mentre ai leader mondiali (e mi riferisco ai detentori dell’economia: non più di 200 persone, per dirla con De Benoist) quasi conviene far covare questo malcontento, perché esso permette di sorreggere l’insieme dei paradigmi obsolescenti sui quali si basa la loro ricchezza.
Mi viene da pensare che siamo entrati in un’epoca rivoluzionaria, non tanto perché le masse possono risollevarsi per chiedere sempre di più (questo c’è già stato, ora si va al declino), ma perché di ciò che abbiamo, o ci è stato donato con la cultura dei consumi, potremmo anche farne a meno. L’economia è destinata fisiologicamente a decrescere, mantenere i suoi presupposti allo stato attuale è uno sforzo volontaristico che è determinato dal desiderio di rimanere nelle condizioni medesime, palesemente insostenibili e invivibili. Eppure di ciò che è stato generato dai paradigmi che ci hanno abbandonato non sappiamo davvero più che farcene. È stata proprio la tecnica a ucciderli, e nemmeno ce ne accorgiamo. Ormai potremmo esprimerci con la massima facilità, dare un colpo definitivo a tutto l’apparato che gli ex sessantottini hanno creato per darci l’immaginazione al potere, prendendosi il potere per mezzo dell’immaginario. Questi vogliono ancora farci credere che la loro idea di produrre immaginario da farci consumare, per mantenere uno status produttivo alto che garantisca il lavoro per tutti, sia irrinunciabile. Invece è una menzogna, almeno parziale. Se solo ce ne rendessimo conto, tutto il loro sistema basato sull’editoria, sulle case discografiche, sulla pubblicità, sull’immaginario collettivo che ci permea attraverso i media crollerebbe insieme ai residui di ricchezza che ancora si sforzano di conservare.
Insomma, oggigiorno possiamo scriverci i libri e pubblicarli da noi, fare noi la musica e metterla in Rete, immaginare quello che vogliamo e farne immagini, produrre in piccolo abiti e oggetti e pubblicizzarli. Tutto questo usando i mezzi che i detentori del potere ci hanno dato per arricchirsi, ma che adesso non riescono più a gestire . Purtroppo continuiamo a credere che solo producendo e consumando in grande si può sopravvivere. Invece è palese che tale convinzione continua ad esserci inculcata dai padroni di una cultura che ha fatto il suo tempo ma che è ancora utilizzabile per farci perdere tempo, oppure inducendoci a usare male gli strumenti tecnici che potrebbero renderci un po’ più liberi. Preferiamo andare su Facebook e aspettare di morire, invece di produrre una Nuova Cultura; preferiamo sorbirci passivamente l’immondizia televisiva, invece di usare i media per esprimerci. Il Grande Fratello non ha bisogno di controllarci: per il momento riesce ancora a narcotizzarci, inebetendoci con il mondo dei reality, bombardandoci di notizie fino a farci dimenticare di vivere e relazionare nelle nostre piccole realtà. Forse non basterebbe un clic per annullare tutto questo. Per renderci conto dell’epoca che stiamo vivendo, e delle opportunità che paradossalmente ci offre, dobbiamo prima riappropriarci della realtà. Il resto è a portata di dito, come adesso: cambierebbe solo l’oggetto del nostro desiderio.

mercoledì 22 aprile 2009



Fonte: www.opifice.it

Nicolai Lilin
Educazione siberiana

Edizioni: Einaudi, Torino 2009
Pagine: 343

Nicolai Lilin è nato nel 1980 a Bender, in Transnistria, una regione dell’ex URSS proclamatasi indipendente ma tuttora non riconosciuta dalla Comunità Internazionale. Da qualche anno vive in provincia di Cuneo. Del suo esordio letterario, scritto direttamente in Italiano, si è parlato abbondantemente nelle ultime settimane. Merito anche dell’ampia presentazione che Roberto Saviano ha scritto per La Repubblica il giorno dell’uscita nelle librerie e che ha trasformato un libro d’indubbio valore in un bestseller. Le prime 28000 mila copie sono state esaurite in due giorni e l’Einaudi è subito partita con la seconda edizione. Al momento il libro figura al settimo posto tra i dieci titoli più venduti in Italia.[1]
Viene spontaneo chiedersi se Educazione siberiana, caratterizzato dalle asperità linguistiche che impreziosiscono le opere di quegli autori che scelgono la lingua d’adozione per esprimersi, costretti quindi a sorvegliare la prosa riuscendoci solo in parte, per cui le parole sembrano esplodere sulla pagina in modo inedito, avrebbe venduto altrettanto, dando al suo autore la stessa notorietà, se Saviano non ci avesse messo del suo. Probabilmente sì, perché il libro ha un suo indiscutibile valore letterario. Pur non avendo un successo così immediato, si sarebbe imposto gradualmente. È evidente che Einaudi ha deciso di investire fin dal principio su quest’esordio, altrimenti l’autore di Gomorra non avrebbe potuto leggere il libro in anticipo, appassionandosene. Eppure la sua presentazione, sebbene generosa (onesta, direbbe Nicolai) ha rischiato d’essere fuorviante, come ha già rilevato la scrittrice Michela Murgia sul suo blog[2], in una recensione in cui paventa quella che a suo avviso sarebbe la “sventura peggiore” per Nicolai Lilin: “passare per il Saviano siberiano, perché lui le cose non le denuncia, le racconta”. Nicolai, trasmettendoci la “sua” verità, è ben lungi dal vedere solo gli aspetti negativi della “comunità criminale” in cui è cresciuto. Egli è tuttora molto legato alla cultura che il suo popolo, gli Urka, ha tentato di preservare nonostante le deportazioni e le vessazioni perpetrate dal governo centrale sovietico. Per gli Urka, religiosissimi, non era certo un peccato uccidere un poliziotto, ma nelle pagine del libro è subito evidente come i metodi della polizia e dei militari sovietici verso i civili, le donne, i disabili e i malati psichici (dei quali Nicolai ci parla con toccante empatia), erano ben più aberranti. Scrive Nicolai Lilin: “… nella nostra comunità il diritto alla parola ce l’avevano tutti, anche le donne, i minorenni, i disabili e i vecchi”; e aggiunge altrove: “… bisognava rispettare tutti gli esseri viventi, categoria in cui non rientravano i poliziotti, la gente legata al governo, i bancari, gli usurai e tutti coloro che avevano tra le mani il potere del denaro e sfruttavano le persone semplici”. Da una parte c’era un governo totalitario, centralista e giacobino che deportava intere popolazioni servendosi della forza e uccidendo con assoluta indifferenza; dall’altra una comunità di “criminali onesti”, secondo l’ormai celebre definizione di Lilin, piena di rapinatori e anche di assassini, eppure tenuta insieme da valori e regole che hanno formato la personalità del narratore nel rispetto dell’unica giustizia possibile in quei luoghi. Gli Urka detestavano il denaro e rifuggivano sia l’uniformazione comunista che i feticci statunitensi. “Ma come mai vanno tutti in America dicendo che cercano la libertà?” si chiedeva lo zio Kuzja, parlando col piccolo Nicolai. “I nostri antenati si sono rifugiati nel bosco, in Siberia, mica sono andati in America. E poi perché fuggire dal regime sovietico per finire in quello americano? Sarebbe come se un uccello scappato dalla gabbia andasse volontariamente a vivere in un’altra gabbia”. Sembra di sentire il Ribelle jungeriano.
Gli Urka non assomigliavano ai camorristi descritti da Saviano, arricchitisi grazie alla cultura della droga e con la testa imbottita dall’ideologia del consumo. Eppure degli Urka bisogna parlare al passato, perché non esistono più. Nicolai Lilin ce li descrive com’erano, prima che la loro lotta per la libertà fosse definitivamente annientata non dal regime comunista, ma dai soldati della Russia democratica e dal capitalismo selvaggio subentrante al capitalismo di stato. Difficile resistere alla cultura del consumo, e i giovani criminali ne saranno plagiati: le vecchie regole, adatte alla sopravvivenza della comunità, perderanno d’importanza, per lasciare il posto al sopruso e al nichilismo. “Non riuscivo a capire i meccanismi che mandavano avanti il mondo normale, dove le persone alla fine rimanevano divise, senza avere niente in comune, senza provare il piacere di condividere le cose”, scrive Nicolai verso la fine del libro. Ecco la sua descrizione dei russi degli anni ’90: “Macchine belle, preferibilmente straniere, vestiti uguali per essere come tutti gli altri, sabato sera al bar del paese per farsi belli, bere una birra in lattina prodotta in Turchia, raccontare agli altri che tutto è a posto, che gli affari vanno bene, anche se sei solo un umile lavoratore sfruttato e non sei capace di vedere la verità della tua vita”. Da queste considerazioni si capisce benissimo che se Nicolai denuncia qualcosa, quel qualcosa non è certo la cultura “criminale” nella quale è cresciuto.
Proprio perché ci parla del passato attraverso gli occhi di un ex ragazzo che ha vissuto cose terribili e straordinarie, ma che neppure manca di buone letture[3], Educazione siberiana non andrebbe letto esclusivamente per soddisfare la nostra morbosità. A mio avviso, le pagine migliori non sono quelle delle risse e degli accoltellamenti, o delle sparatorie con morti ammazzati di cui è protagonista Nicolai stesso. Che senso ha chiedergli se ha ucciso e come, dopo che lui si è raccontato nel libro e continuerà a raccontarsi nel probabile seguito, quello della guerra in Cecenia? Educazione siberiana non è un film di Tarantino, e nemmeno un romanzo di Corman Mc Carthy. Non deve importarci se le cose siano andate come Nicolai le racconta: con le stesse modalità, in modo così “romanzesco”. Certe scene d’azione, come quelle della seconda parte del lungo episodio Il giorno del mio compleanno, potrebbe raccontarle un regista americano in un film come The Warriors. Invece siamo di fronte all’opera di uno scrittore persino colto, ben consapevole dei suoi strumenti, che ha fatto tesoro della narrazione orale degli anziani, dello zio Kuzja e di altri, per trasformare in letteratura ciò che ha visto e sentito. Letteratura nel senso più alto del termine: è grazie a queste pagine se veniamo a conoscenza di un mondo e di una cultura, se i nomi delle persone che l’hanno costituita ci afferrano per trascinarci piacevolmente fin dentro la pagina. Zio Kuzja e l’anziana sorella, l’imbestialito ma simpatico Mel, zia Katja e il suo rifugio di vecchi criminali, il sanatorio con i pazienti affamati di sigarette e il negozio di Bosja vivono grazie a questo libro e alla straordinaria empatia del narratore. E sono le pagine migliori, quelle che partono come una digressione e vorremmo che non finissero mai. È straordinaria l’empatia con cui Nicolai Lilin riesce a descriverci i suoi amici disabili, malati psichici, che tra gli Urka sono considerati “Voluti da Dio”. Con altrettanta empatia riesce a descriverci il loro spaesamento di fronte alla morte e al dolore, togliendoci il fiato. Come succede a Boris, freddato una notte dai militari: “Teneva il suo cappello da macchinista ancora stretto tra le mani. (…) per morire si era messo come i neonati, le ginocchia al petto stringendosi tutto. (…) Gli occhi erano spalancati e gelidi, conservavano una paura disperata che si trasformava in una specie di domanda: - Perché mi sento così male?”. Qui, davvero, la letteratura arriva dove la psicologia e la psichiatria si fermano.
Mi piace pensare a Educazione siberiana come a un’elegia anomala, poiché è delle elegie raccontare vicende morali e sentimentali senza per questo scadere nel moralismo o nel sentimentalismo. Il soldato Nicolai, nel pieno della guerra cecena, ha bisogno di recuperare ciò che ha perduto e farne tesoro, trattenendo in sé le persone che gli hanno insegnato ad amare la libertà. Meglio delinquente che borghese, diceva Ernst Jünger con una frase ormai desueta, o forse diventata impresentabile perché politicamente scorretta. Meglio “criminale” che corrotto, ci dice invece Nicolai Lilin. A patto d’intendersi sulle parole.

Claudio Ughetto

NOTE

[1] LA STAMPA, Tuttolibri n. 1661, 18 aprile 2009.
[2] michelamurgia.altervista.org/content/view/333/2/
[3] Sarà un caso che tra i nomi degli scrittori letti in gioventù, Nicolai Lilin mette anche quello di Dickens, maestro nel mostrare delle realtà terribili e vitali attraverso occhi di bambini destinati a crescere troppo in fretta?

domenica 19 aprile 2009

CATLINA

Claudio Ughetto


CATLINA

A mia nonna
(sebbene in ritardo)

Sparavano da sopra, dal Truc. Dall’altra parte, sul Sangone, c’erano i cannoni puntati verso la borgata. Ci sparavano addosso, con la mitraglia, se solo provavamo a scappare nel bosco o nei prati. E poi c’era quello che girava per la borgata, col mitra spianato. Parlava italiano. “Tutti banditi. Tutti ribelli”, urlava. Chi coglieva coglieva: fuoco, brambrambram. E poi un colpo alla testa, tanto per essere sicuro. L’altro girava per la borgata con lui, delle volte lo lasciava solo. Come quando ha dato fuoco ai tetti delle case di fronte, col lanciafiamme.
Parlavano italiano quei due, non credere. Avevano mandato degli italiani ad ammazzarci. Quello che sparava, lo specialista, mi ha beccata dopo che avevo liberato le bestie dalla stalla. Dopo che l’avevo visto mitragliare la zia Celestina. Sai che specialista… è entrato in casa e le ha puntato in faccia il mitra, come un brigante, urlandole: “Dammi i soldi, tutto quello che hai!”. Lei s’è presa un colpo, è scappata fuori e lui ci ha messo niente a spararle alla schiena. Morta ammazzata. Era il primo morto ammazzato che vedevo, ma quel mattino n’avrei visti degli altri. Molti altri.
Non so come, ma quand’ho visto quel nazista andarsene neanche avesse ammazzato un cane, ho capito quello che stava per succedere. Avevo tuo padre e zio Aldo in braccio, ho capito che dovevo metterli al sicuro, prima che quelli tornassero. Di pietà, quelli, non n’avrebbero avuta. Ho nascosto i bambini nel prato, poi sono tornata indietro, sforzandomi di non sentire. Di non sentire i loro pianti alle mie spalle, né la mitraglia sul Truc, dove c’erano i nostri campi. Sembrava sparare al nulla. Soprattutto non volevo sentire il mitra dello specialista: quando crepitava, mi chiedevo chi dei miei parenti o tra quelli della borgata avrei dovuto piangere. Dopo, però. Adesso per piangere non c’era tempo. Ho visto l’altro nazista buttare nella stalla dei legni incendiati, là nel fieno, insieme alle mucche e al mulo. E c’era il cane, il nostro bassotto, che non voleva scappare. È entrato con me nella stalla a fuoco. Dentro non si resisteva. Il nazista già si era spostato sulle altre case, per bruciare l’intera borgata.
Ho fatto quel che potevo. Messo fuori le bestie impazzite, e non so come il mulo non mi abbia ammazzata a calci. Fuori. Le tre mucche volevano uscire dalla porta come una sola bestia, dopo il mulo che invece non si è guardato indietro. Ho sentito il cane che guaiva, ma era tardi: una palla di fuoco nel fieno che stava mangiandosi anche i muri. Sono uscita anch’io, ma non per scappare. A spegnere dovevo provarci, perché se lasciavo perdere non si sarebbe salvata neppure una casa. Ho aggirato la stalla e da dietro sono salita sulla volta, da dove potevo vedere le fiamme che salivano come dalla bocca dell’inferno. Non chiedermi come ci sono riuscita: sarà che le fiamme si stavano mangiando anche quello, ma dalla disperazione ci ho buttato sopra il tetto che a momenti si portava anche me, là dentro.
Mi è andata bene troppe volte, quel giorno, però quand’ero lì non me ne sono accorta. Ero troppo impegnata a spegnere, a tenermi in equilibrio su quelle travi. Pensavo a tuo padre, ad Aldo, al nonno che stava lavorando alla Polveriera e non sapeva che casa sua stava bruciando con quelle dei vicini. Dove avremmo dormito, quella notte, con la neve che era caduta in autunno, il freddo arrivato troppo in fretta? Quando il fuoco si è calmato ed ho capito che se la stalla era persa almeno avrei salvato le nostre case, non ho avuto il tempo di tirare il fiato. I due soldati stavano guardandomi da sotto, dal cortile, arrabbiatissimi, i denti digrignanti. Quello che ammazzava ha sparato verso di me, sopra la mia testa. Non voleva colpirmi, magari sperava di farmi cadere. L’altro aveva il lanciafiamme ed ha vomitato una fiammata contro il muro. Un alito cupo. “Scendi, donna, o ti uccido!”, ha urlato quello col mitra. Ho fatto finta di non sentirlo, aspettandomi la raffica che mi avrebbe mandato all’altro mondo. Il mitra ha sparato in aria, mentre il lanciafiamme si avvicinava alla porta della stalla. “Scendi, amica dei banditi!”. Non riuscivo neanche a piangere, quand’ho risposto: “Non mi uccida, la prego. Ho un marito e due bambini. Io coi banditi non c’entro niente”. Quelli si sono fermati, e ancora adesso non ho capito che gli avesse preso. Inferocito, quello che sparava ha detto: “Adesso ce ne andiamo, ma se quando torniamo sei ancora lì, per te è per i tuoi bambini è finita”.
Ne hanno ammazzati degli altri, prima di andarsene. Ma da me non sono tornati, anche se sono rimasta lì. A spegnere le ultime fiamme.




Nella vita abbiamo avuto tutti dei momenti fondamentali, di quelli che ci tornano in mente negli anni più stanchi dell’esistenza, quando siamo sfiorati dal dubbio d’essere vissuti invano. Si tratta, spesso, d’immagini frammentarie, brevi sequenze che non ricordiamo bene, né giureremmo che le cose sono andate davvero così. Può essere un viso sorridente che si è chinato su noi quand’eravamo bambini, oppure le nostre mani infantili che afferrano le sbarre di una ringhiera troppo alta - gli occhi serrati ma già determinati ad aprirsi sulla vertigine del terzo piano. Mi vedo spaventato, le gambe irrigidite e le mani appoggiate al centro del manubrio di una vecchia Vespa 50 che mia madre sta guidando. Stiamo davvero viaggiando, me davanti a lei, nell’aria estiva? Sta accelerando con me lì sopra, sospeso? Oppure il motore è spento, lei ed io a fare brum brum? Allora perché sono spaventato, sebbene entusiasta d’essere ritenuto abbastanza grande da salire con lei sulla sua Vespa?
Tanti momenti, importanti per me, ma niente di paragonabile a un momento fondante. Mi piace chiamare così uno di quei momenti che pochi hanno l’onore (o la sventura) di provare. Non è obbligatorio vivere a lungo per provarne uno, ma se lo proviamo da giovani ce lo porteremo addosso per tutto il resto della vita. Mia nonna ha vissuto un momento del genere quand’era già adulta, molto prima che io nascessi. All’epoca aveva due figli ancora molto piccoli, mio padre e mio zio, che quel giorno rischiarono di morire in quel prato, dove li aveva nascosti per proteggerli. Invece, non s’accorsero di niente. Seppero anni dopo di quei nazisti italiani che la sorpresero sopra la stalla in fiamme. Credo l’abbia raccontato a loro come poi l’ha raccontato a me e ad altre persone. Per tutto il resto della sua lunga vita, mia nonna sarebbe tornata a quell’istante, sforzandosi di spiegare a se stessa e agli altri qualcosa che non è mai riuscita a comprendere.

Mia nonna Angiolina non era una dispensatrice d’aneddoti. Niente a che vedere con le candide nonnette dai capelli imbiancati e raccolti a crocchia, lo scialle sulle spalle, cullate dal dondolo mentre intrattengono i nipoti con fiabe e storie improbabili. Ho visto nonne del genere in qualche fiction Tv: forse non sedute sul dondolo, ma quasi un tutt’uno con la poltrona, il caminetto che s’intuisce nella stanza, riflesso dai loro occhiali ultraspessi. Nonne che non sembrano mai state donne, ozianti in case perfette e immutate, nelle quali gli oggetti si mettono a posto da soli, immuni dalla polvere. Qualcuna donna lo è stata, ma in un’altra epoca. Qualsiasi paragone tra ciò che ha vissuto lei e ciò che vivranno i suoi nipoti è del tutto incongruente, ci viene da pensare. Eppure eccola impartire consigli e saggezze a quei bambini. Loro raccolgono, traggono insegnamenti, salvo rimanerci male appena usciti di lì, quando incontreranno un inferno del tutto diverso.
Mia nonna non dava consigli, raccontava quel momento fondante senza capire perché le fosse accaduto. Ero io a dargli un significato particolare, a dirmi che non sarei stato lì ad ascoltarla se il nazista avesse mirato bene e poi fosse andato nel prato. Mia nonna non assomigliava affatto a una candida vecchietta, ma piuttosto a una zingara che è stata splendida in gioventù e che è invecchiata senza far nulla per ostacolare l’avanzata del tempo. Come una vecchia zingara ostentava ogni segno sul viso, proprio come a un guerriero piace ostentare le proprie cicatrici; raccoglieva i capelli grigiastri sotto un foulard arrotolato sulla testa a mo’ di bandana e sorrideva mostrando una rada dentatura, perché alla dentiera non si era mai abituata, pur tenendola immersa in qualche barattolo che aveva dimenticato in qualche buffet della sua caotica casa. È in quei buffet, nelle cassepanche e nei bureau ricoperti di cianfrusaglie fino allo specchio che ho trovato delle foto di quand’era giovane, da sola e insieme al nonno. Lui piccolo e affilato, il naso aquilino e gli occhi chiari sotto una zazzera di capelli ingestibili; lei perennemente in posa, il seno prominente sotto la giacchetta, la gonna lunga e piena di svolazzi zingareschi. Bellissima. Gli occhi grandi e scuri sotto i capelli ancora più scuri, il naso tondeggiante e aristocratico. Credo che mio nonno si ritenesse fortunato, almeno allora. Sapeva già di aver sposato una donna particolare, l’esatto contrario della sposa ideale che una suocera di quei tempi avrebbe voluto per suo figlio? Benché i due si conoscessero fin da piccoli, quello non era certo un matrimonio combinato. D’altra parte, da ragazzi ci si può innamorare di una donna bellissima, corteggiarla per uscirci insieme, magari anche per vantarsene con gli amici. Sposarsela è diverso.

Angiolina ha sempre abitato il mondo dei sogni, da quand’è nata. Per lungo tempo l’ho immaginata come una strega, un’abitante della notte che vagava per i boschi vedendo dove gli altri non vedono, tra stropicciarsi di foglie e rami che sembrava attraversare senza graffiarsi. D’inverno, quando il buio scende presto, mio nonno Valente la chiamava a cena dalla soglia di casa urlando Catlina verso i prati nebbiosi. Catlina è la morte, in piemontese, ma io a quei tempi non scorgevo in mia nonna quel lato oscuro che da qualche parte doveva avere. Solo chi non la conosceva avrebbe potuto spaventarsi, vedendola spuntare dall’erba brinata, come uno spettro, mentre trasportava sulle spalle un ceppo dalle forme antropomorfe o bestiali; oppure spingente una carretta carica di pietre destinate ad abbellire un giardino roccioso che sarebbe rimasto caotico, pieno di piante incurate e ibridate. Per salvarle da una morte precoce, mio padre e mio zio finivano per curarle al posto suo.
Forse era questo il suo lato oscuro, che si esprimeva nell’incapacità di dar forma all’idea di bellezza che aveva in testa. Raramente l’ho vista terminare ciò che metteva in atto: lasciava dietro di sé sculture immaginarie, di legno e di pietra, bambole recuperate chissà da dove, sedie pregiate che ammucchiava con del mobilio miserrimo. Non era il valore di un oggetto ad attrarla, ma se aveva o no una forma piacevole. La sua casa si riempiva di specchi, catini, pendole e lampadari, fotografie e ritratti di gente sconosciuta. Un guazzabuglio di rigatteria che mio nonno lanciava dalla finestra almeno un paio di volte l’anno, quando si sentiva sommergere dal caos. “Me o loro!” le intimava, come se quelle cianfrusaglie fossero vive. Chissà che non lo fossero state? Il dubbio mi veniva di tanto in tanto. Le immaginavo provenienti da un mondo parallelo, quello notturno che mia nonna amava frequentare perché la incuriosiva e non n’aveva paura, anche se era popolato da creature festanti che avrebbero spaventato chiunque. Loro la ospitavano, ma avrebbero preferito starsene lì, lontane dagli umani e dall’intollerabile luce diurna. Tornando a casa, Angiolina non poteva che portare con sé degli abbozzi irrigiditi, seminformi, conservanti però delle vaghe somiglianze con le creature che solo lei aveva visto.
Più in là nel tempo, quando mio nonno cominciò a invecchiare precocemente, devastato dal troppo fumo e dal troppo bere, toccò ai loro figli sbarazzare periodicamente la casa. Lo facevano a malincuore, e lei si sforzava di collaborare controvoglia, tampinandoli ad ogni carico, bestemmiando e lagnandosi, sottraendo degli oggetti dalla carretta che spingevano verso il fuoco che li avrebbe inceneriti. Ricordo lei piangente e balbettante, mio padre che si sforzava di spiegarle che era necessario, perché quella era una casa e non il negozio di un rigattiere. Credo che lui soffrisse quanto lei, frustrato da quella che doveva sembragli una violenza non gratuita, ma sicuramente inutile. Tanto, di lì a qualche mese, tutto sarebbe tornato come prima. Io e mio cugino Marco, invece, a quelle incursioni ci partecipavamo volentieri. Eravamo dei bambini, crudeli ed eccitati dal falò crescente e dalla montagna di rumenta – come in piemontese si chiamano le cianfrusaglie - che si smuoveva ad ogni nuovo lancio, le faville che capriolavano per poi sfogliare e scendere al rallentatore, annerite e sottili. A scuola l’insegnante ci raccontava della Notte dei lunghi coltelli, inducendoci all’indignazione. Come tutti mi commovevo vedendo Olocausto alla tele, intanto attendevo con impazienza che arrivasse il mio week-end fortunato: quello del pogrom casalingo, con me come aguzzino e mia nonna che si ribellava e mi riempiva d’insulti, inseguendomi col bastone.
Ancora non scorgevo il suo lato oscuro, né m’immaginavo la vita notturna di quei legni di cui il fuoco si stava divorando ogni morfologia. Alle fiabe, preferivo i giornalini dei supereroi. Non mi chiedevo come Spiderman avrebbe trattato uno come me, e zia May era una vecchietta finta, troppo ordinata e imbiancata per assomigliare a mia nonna che aveva superato i sessanta senza quasi un capello bianco. Gli X Men li avrei capiti più in là, nel momento in cui cominciavo ad accorgermi che lei era fin troppo simile a me. Chissà che non lo sapessi già prima? Chissà che non approfittassi di quella vampata pirotecnica per non vedere?

Lei aveva affrontato altre fiamme, ben più alte e voraci. Più che rabbia, un moccioso saltellante come me doveva farle pena. Ciò che era successo nella nostra borgata il 29 novembre 1944 l’aveva già raccontato e me l’avrebbe raccontato meglio anni dopo, quand’ero più disposto ad ascoltarla. Era da quand’ero in grado di comprendere che mio padre ci tornava su alla sera, davanti alla tele, di fronte a quei documentari sulla Resistenza che poi inscenavo nei giochi con gli amici. Eravamo tutti partigiani, naturalmente, contro dei nazisti inesistenti che immaginavamo nascosti tra i boschi, nei vecchi fienili in cui forse erano davvero passati decenni prima.
Benché io e i miei amici fossimo cresciuti nel mito resistenziale, mia nonna non amava i partigiani. Li riteneva i responsabili morali di quella rappresaglia. “I tedeschi non avrebbero ammazzato nessuno se non avessero pensato che proteggevamo i partigiani” mi disse un giorno, mandando in frantumi tutto quanto mi era stato insegnato a scuola. “Quelli facevano gli attacchi, depredavano qua e là, esponevano bottini d’armi e mezzi nei prati. Poi sono arrivati i tedeschi il mattino presto, tirandoci fuori dalle case, mitragliandoci in cortile… Tutti banditi, tutti banditi, gridavano”.
All’epoca mio nonno Valente lavorava al Dinamitificio Nobel d’Avigliana, che in Valsangone tutti chiamavano La Polveriera. Producendo munizioni da scaricare contro i nazisti e i repubblichini, si era scampato d’andare in guerra e poteva stare vicino ai due figli ancora piccolissimi. Quel mattino si trovava lì, al sicuro dai mitra ma non dalle esplosioni che ogni tanto sbrindellavano i poveri operai, nient’affatto preparati a quelle lavorazioni. Angiolina temeva ogni giorno di rimanere vedova, o peggio ancora con un marito invalido da assistere. Di certo non avrebbe mai immaginato d’essere lei quella in pericolo, e non lui. Ha salvato se stessa e i bambini, persino la casa e parte della borgata. Con Valente ha pianto le persone uccise. Come il fratello diciannovenne Antonio, pittore e scultore, che è stato condotto nel bosco con lo zio Massimo. Quasi non si è accorto di morire. Massimo l’ha visto cadere al suo fianco, falciato da una raffica che mai avrebbe pensato così improvvisa. Il nazista ha sparato anche a lui. Non sicuro di averlo ucciso, gli ha scaricato un’altra raffica addosso, a distanza ravvicinata. Ferito, Massimo non ha perso conoscenza, si è finto morto mentre i proiettili gli scontornavano il passamontagna che quel mattino si era messo prima d’andare a lavorare. È rimasto immobile. Il nazista gli ha colpito la faccia con la punta del mitra per assicurarsi d’aver fatto un buon lavoro, poi se n’è andato. Massimo ha capito che non sarebbe morto neppure stavolta, nonostante le pallottole e le baionettate ricevute nella Grande Guerra e un tentativo di suicidio con una rasoiata alla gola per non tornare a combattere in Grecia, perché aveva pieni i cassetti di medaglie e onorificenze. Sarebbe vissuto ancora così a lungo che ho avuto il tempo di conoscerlo, questo vecchio asmatico che sentivo arrivare dal fondo del cortile prima di vederlo passare davanti alla mia casa. Fischio sibilante e strozzato, toc-toc del bastone sul terreno, il passo d’un uomo che da ragazzo aveva scalato il Monte Bianco.

Valente si sarà mai reso conto di chi era sua moglie? Sarà mai stato tentato di seguirla di notte, passando dall’oscurità dei boschi a un’areata radura? L’avrà mai vista stagliata su un promontorio, magari sul Truc, illuminata a giorno dalla luna? “Io lavoro, di notte” rispondeva lei durante le loro furibonde litigate. “Taglio legna, poto, falcio l’erba. Con la luna, non mi serve nemmeno la pila”. Di certo non l’avrebbe seguita per gelosia: sapeva d’avere sposato una donna bellissima ma troppo particolare, con la quale era difficile stare. Preferiva lasciare Catlina alla notte, dove lui non c’era, perché neppure l’alcol riusciva a dargli la necessaria fantasia che dà vita agli esseri immaginari che lei gli metteva in casa. Gli bastava l’Angiolina che si adattava al giorno, quella con cui litigava e che lo sopportava quand’era ubriaco, paradossalmente così concreta da rimproverarlo perché in tanti anni non era mai riuscito a trovarsi un lavoro serio. L’Angiolina per la quale faceva la spesa e cucinava, perché lei non avrebbe saputo mettere insieme due ingredienti. L’Angiolina che l’ha assistito di malavoglia dopo che lui si è piegato sulla sedia, gli arti rinsecchiti, la sigaretta ancora tra le labbra. Vecchiaia precoce, bronchite cronica, indurimento venoso. In borgata ognuno aveva la sua diagnosi improvvisata, azzardo di pareri medici comicamente storpiati.
Il giorno dei santi del 1980, mia nonna si svegliò di fianco a lui e non lo sentì russare, né tossire. D’ora in poi non avrebbe più dovuto occuparsi di lui: preparargli il pranzo e la cena, vestirlo e svestirlo, metterlo sulla sedia a rotelle, spingerlo per il cortile. Né i figli e le nuore l’avrebbero più rimproverata perché durante quegli anni aveva continuato ad assentarsi, lasciando il marito seduto fuori casa, il cappello di paglia sulla testa che quasi sfiorava le ginocchia, la sigaretta in bocca e la tosse persistente, ormai incapace di urlare Catlina. Per l’epoca, il loro era stato un rapporto inusuale, con lei a fare l’uomo e lui che badava alla casa, ma credo che Angiolina e Valente si siano amati di un amore sincero, persino ordinario. Una coppia come altre. Nonostante lei non sapesse fare la moglie, a lui probabilmente questo non dispiaceva troppo. Benché litigassero, rinfacciandosi le cose peggiori, erano ben coscienti d’avere bisogno l’uno dell’altra. Ma da quand’era stata costretta a dedicarsi totalmente a lui, sacrificando il proprio lato notturno per diventare ciò che non era capace di essere, mia nonna aveva cominciato ad odiare mio nonno, pur continuando a volergli un bene infinito. Finalmente libera, poteva tornare a vagare sotto la luna come una vecchia strega. Della vecchia strega aveva la stessa energia, lo stessa incuria per un corpo che continuava a non graffiarsi tra le piante e i rovi. Eppure mi sembrava che le pesasse, tutta quella libertà. Come se non sapesse più bene che ruolo interpretare. Adesso che non c’era più nessuno a richiamarla in casa, urlando il suo nome oscuro, ora che poteva stare fuori casa senz’obblighi, infischiandosene se era giorno o notte, Angiolina sembrava preferire i ricordi alle fughe nell’immaginazione. Non la vedevo più tornare dai prati al mattino, i piedi che alzavano la rugiada sulla brina. Continuava a portare in casa delle cianfrusaglie, ma era come se fossero sempre state lì, ammucchiate ovunque, fino a sommergerla nella stanza dove dormiva vestita, in un letto che non rifaceva mai. Credo che ormai fossero diventati oggetti anche per lei, perché quando i suoi figli la convincevano che era necessario portarne fuori almeno una parte e bruciarla, lei aveva smesso d’opporsi: controllava, difendeva qualcosa cui si era affezionata, ma senza l’animosità che le avevo visto quand’ero un ragazzino.
Magari ero io ad essere cambiato. Fingevo di fare il fotografo, qualcuno m’invidiava, ma su chi ero non avevo le idee ben precise. Alla sera uscivo e trascorrevo le notti a Torino, vagando con gli amici tra i Murazzi e le birrerie. Delle volte me ne stavo chiuso in camera per settimane con lo stereo a palla, leggendo Dante e Joyce e imponendomi di scrivere un’opera immortale. Mia madre bussava alla porta, chiedendomi se ero ancora vivo. A cena mio padre si mostrava preoccupato: a modo suo cercava di spiegarmi che il mondo era fuori da me, non in me, e che lui non andava ogni giorno a chiudersi in fabbrica per alimentare le mie fantasie. Probabilmente si esprimeva male, o io non volevo capirlo. Fatto sta che ben presto il suo approccio diventava meno comprensivo. “Sei come tua nonna” mi diceva. “Hai preso da lei in tutto e per tutto!”. Io rispondevo urlando e piangendo, spesso insultandolo, poi uscivo di casa senza sapere dove andare.
Mia nonna aveva smesso d’allontanarsi nei boschi quando girovagava di notte. Spesso la incrociavo in cortile, nelle zone più buie, oppure all’entrata in borgata, china a segare legna per una stufa che non accendeva mai. Pensavo al mondo che lei aveva abitato per anni e che nessuno aveva mai accettato, neppure suo marito che chiamandola Catlina aveva almeno relegato una sua parte fuori della loro vita. Adesso era Angiolina e basta. Una vecchietta stramba e un po’ infantile che si comportava nello stesso modo di giorno e di notte. Quasi una stracciona. Ingobbita, perennemente china a segare, spostare sassi in prossimità del cortile, riempire di terra le tampe nella strada sterrata, come se quei lavori di manutenzione toccassero a lei. C’erano però degli altri momenti: d’inverno, dopo una cena frettolosa (di solito una patata cotta e un vecchio formaggio, oppure una minestra riscaldata troppe volte o una tazza di latte), infilava degli occhiali che forse non erano neppure suoi e si attardava a leggere dei settimanali che le passavano le nuore - a volte dei libri recuperati chissà da dove, spiegazzati e strappati. Non s’interessava al gossip, e neppure alla cronaca. Fin da ragazza erano l’arte, la storia e la scienza ad appassionarla. Vedendo la luce accesa in cucina, una piccola luce che si era sistemata vicino al tavolo, andavo a trovarla. Con un po’ di soggezione, mi sforzavo di sopportare l’odore nauseante di una casa mai pulita. In quel cono luminoso, lei alzava lo sguardo perennemente incuriosito per parlarmi dei suoi eroi: Michelangelo, Leonardo, Galileo, Einstein e tutti quelli che secondo lei avevano permesso all’umanità di progredire. Amava gli individualisti, credo s’identificasse con loro, soprattutto con i perseguitati. A torto o ragione, in quegli anni anch’io mi sentivo come lei. Non sempre eravamo d’accordo: anticlericale, esaltava le gesta di Napoleone e la sua impresa di laicizzazione dell’Europa. Sulle nefandezze della Chiesa la pensavamo uguale, ma già allora quel tronfio francese mi disgustava altrettanto.
Di lei mi attraevano le contraddizioni, quelle aporie che mandavano in bestia gli altri. Anarchica e monarchica, Angiolina; illuminista e utopista quando esprimeva un’idea di mondo, ma oscura e irrazionale per quanto riguarda la propria esistenza. Quando raccontava del suo momento fondante erano in pochi a capirla. Che madre è una donna che nasconde i suoi figli in un prato e poi corre a spegnere un incendio, rischiando di farsi fucilare? “Dovevi tenerli in braccio, scappare via con loro che venivano prima di tutto” le disse mia madre, una volta che l’avevamo invitata a pranzo. “Il resto che bruciasse pure”. Lei non aveva cambiato idea: “Che dovevo fare, lasciare che bruciasse la borgata? C’era la mia vita, qui. La nostra vita”. Quasi ottantenne, intrattenne un’intera scolaresca giunta in borgata per sentire di quei lontani accadimenti. Fu anche intervistata da un giornale locale, ammirata per il suo eroismo. Lei disse, più o meno: “Chi ha vissuto quella guerra, come me, vorrebbe solo che di guerre non ce ne fossero più. Siamo piccoli, egoisti e fallibili. Proprio per questo si dovrebbe cercare la pace, approfittare dei progressi scientifici per vivere meglio e a lungo”.
Quand’è stata sepolta, vedendo la bara scendere nella fossa, per un istante mi sono sentito abbandonato, nonostante mia moglie stesse stringendomi la mano e mio padre avesse smesso da anni di paragonarmi alla donna che la terra stava inghiottendo. Un attimo. Il tempo di capire che d’ora in poi avrei potuto accoglierla liberamente, riconoscermi in quella parte di lei che era già in me. Compagna di notti creative e insensate, tra creature che s’addormentano con le prime luci.

Giaveno - Maggio 2008

Cosa significa Tumptymtoes?


Me lo chiedono in tanti, ma neppure io so cosa significa. Però so da dove viene, e non è poco.
Tumptytumtoes è una parola oscura, scoppiettante e "intraducibile" (lo dice anche Umberto Eco, autorità in materia) dispersa tra le plurilinguistiche ed alessandrine pagine del Finnegans Wake joyciano. Mi piace per la sua ritmicità, e perché è comica e suggestiva insieme. Credo che ben esprima il mio stato d'animo quando mi appresto a scrivere qualcosa e di solito non so neppure bene dove sto andando. - Scrivi per comunicare, - mi dicono gli amici. Purtroppo io non scrivo per comunicare, perché il più delle volte non ho niente da comunicare, oppure non so ancora cosa vorrei, o dovrei, comunicare. Preferisco convincermi che scrivo per capire: per vedere in una qualche forma cosa posso trarre dalle mie riflessioni gratuite sulla realtà che vivo, dagli incontri quotidiani, dalle mie letture e anche dagli strumenti moderni d'informazione, che non posso sfuggire pur sapendo che non m'informano per nulla.
I graditi visitatori di questo blog dal nome incomprensibile vi troveranno pensieri in libertà, articoli e "saggetti" (ho la pretesa di chiamarli così...) scritti per dei link amici, qualche svagata passione... Per un paio d'anni ho tenuto un sito, era anche discretamente frequentato, ma ben presto ho trovato frustante non riuscire a colloquiare con i gentili ospiti che andavano lì sopra a leggere la roba mia. Forse un blog, apparentemente più limitato, può trasformarsi in una occasione di dialogo e confronto reciproca.
Per il momento, benvenuti.